Non è un paese per onesti
Vorrei partire proprio dal titolo: Sotto il diluvio, sì proprio quel diluvio, infatti il tutto si apre con la citazione biblica e quando il cerchio si chiude (senza chiudersi affatto, ma non voglio anticipare troppo) si torna alla pioggia, una pioggia che non purifica nulla e
l’impressione (la mia) è che non ci sia nessun Noè che abbia voglia di salvare un’umanità che non lo merita. Chi d’altronde poteva esser candidato all’Arca, forse Catia, la segretaria integerrima di Oreste il protagonista? O Ada, la governante devota nonostante tutto, o June la cagna, anche lei fedele per definizione, e i maschi? Marc, nah, troppi scheletri nell’armadio. Non so, forse nessuno è davvero degno di portar avanti la razza, ma d’altronde… chi è senza peccato…non si dice così? E forse potrebbe essere proprio questo il motto di ORESTE DE RITIS (nomina sunt…), con la sua mente machiavellica.
IL POTERE, questo conosciuto, invece potrebbe essere il sottotitolo del romanzo dato che ne rappresenta il tema centrale e, ribaltando la celebre frase, il potere non logora chi ce l’ha e qui tutti non vogliono rischiare il logoramento, ognuno è affamato di potere, per brama, per bisogno, per inconsapevolezza cieca, per senso di rivalsa o frustrazione.
E l’elenco potrebbe continuare, ma riservo a voi lettori questo divertente esercizio di interpretazione.
Un ritratto poderoso, intinto di realismo verghiano, ma c’è tanto anche della folla
manzoniana, credulona, cieca, beota in questa epopea dello squallore.
E’ un romanzo postgattopardiano per sua stessa dichiarazione: “Perché tutto rimanga
com’è, bisogna che tutto cambi”. Cambiare tutto per non cambiare niente, insomma, come ben si sa, il vecchio adagio che riassume il mondo della politica.
Dentro ci stanno i grandi dell’ottocento: Guy de Maupassant, anche lui “traumatizzava” illettore (La Mère Sauvage), Balzac, ma anche un certo Flaubert, tutti pittori mirabili del
quadro sociale, ma i suoi maestri riconosciuti sono contemporanei: Calvino, Buzzati, Mc
Carthy e la lezione, Natali, l’ha imparata bene, si sente che legge molto e sa scegliere con
oculatezza che cosa.
Il capobranco Oreste fa parte della categoria dei Villain della tradizione shakespeariana,
per lunga pezza i cattivi sono stati sempre italiani e spesso mi son chiesta chi fosse il
peggiore, forse Riccardo III, ma data la sua deformità, magari, ha una giustificazione,
Oreste no, lui è un cattivo senza scuse, come Jago, forse peggio, non ha neanche l’invidia
a sua discolpa, e quindi è un cattivo allo stato puro.
C’è chi ha detto che è narrativa politica, anche sociale, ma, azzarderei, psicologica, anzi
esistenziale: il male di essere, nascosto dall’apparire, forse potremmo sintetizzare.
In generale, di Natali ho sempre apprezzato la cura del dettaglio, la capacità di
osservazione assolutamente non comune, la pennellata raffinata che caratterizza con
pochi tratti i personaggi, l’uso sapiente della suspense, il ribaltamento delle aspettative del
lettore, insomma ciò che lui scrive, sia racconto o romanzo, funziona, sorprende, convince.
Il sistema dei personaggi indica l’uso conscio o no (non saprei dire) dell’arte del contrasto:
uomini versus donne, genitori versus figli, fortunati contro sfigati, l’un contro l’altro armato
e poi quante sfumature, che coloritura del carattere, che uso perfetto del lessico, del
dialogo. E sennò che scrittore sarebbe, direte voi, e invece ci sarebbe tanto da dire, ma io
qui parlo solo di lui.
Per concludere, è stata detto: “la storia è un’ottima base per una possibile sceneggiatura”
chissà che qualcuno non ci pensi (Giulio potrebbe cimentarsi), che bello sarebbe, eccoli
tutti qui, sul palcoscenico della vita (io, che mi diletto a recitare, sarei molto curiosa di
vederli in diretta), scesi dalla scacchiera dell’implacabile burattinaio Oreste; chissà che
non veda la luce questa trasposizione dal romanzo al dramma teatrale.
Un qualcosa di classico alla Tennessee Williams, stiamo a vedere, o magari un bel film.
Nella mia lettura ( è stato difficile scegliere) “vedete” Oreste in azione.